
La vittima non vittimista, prova gratitudine verso chi la aiuta, perché il suo stato emotivo e mentale di dolore è ancorato ai fatti reali che glielo hanno prodotto e non ad intenzioni, seppure inconsce, di “sfruttare” l’altro per difendersi da antiche ferite irrisolte che si porta dietro dall’infanzia.
Il vittimista non riesce a provare gratitudine in quanto considera la relazione affettiva che la gratitudine svilupperebbe come un ambito potenzialmente inaffidabile. Ciò a causa di una mancata elaborazione della relazione primaria con la madre nella prima infanzia, vissuta come inaffidabile per fatti e comportamenti oggettivi e/o fantasmatici.
Provare gratitudine, fidarsi, aprirsi all’altro e quindi lasciarsi aiutare, amare e ad essere amati, nasconde lo spettro dell’abbandono e del tradimento, perciò piuttosto che provare gratitudine e amore per gli altri che vorrebbe aiutarlo, finisce con il trasformare gli altri ingrati, in persone incapaci di comprendere le sue esigenze, il suo amore, la sua bontà, e, naturalmente, i suoi dolori.



Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici finalizzabili a rafforzare la posizione di vittima, l’aguzzino diventa il destino ed il fato che viene considerato sempre avverso, come se si fosse vittima di una qualche predestinazione demoniaca che condanna alla sfortuna costante. Ed è questo un altro motivo per non fare niente e continuare a lamentarsi. Un altro aspetto tipico dello psichismo delle persone vittimiste, le porta a rimandare, a procrastinare o a non considerare tutte le azioni potenzialmente migliorative della loro condizione, ad un ideale “momento migliore”, che potrebbe anche però, a livello di realtà, non arrivare mai.
Il ‘vittimismo patologico’ può essere considerarsi come una ‘caratteriopatia narcisistica’, cioè come una struttura di carattere consolidatasi nel tempo, ma può anche avere una natura transitoria, e quindi reattiva verso un periodo di difficoltà che si sta attraversando.
In ogni caso non si sta parlando di ‘vittimismo pretestuoso’, volto a giustificare la propria negatività nell’intento di far passare la vera vittima come il carnefice. Molto spesso, nella vita individuale, come nella società, e nella storia, si registrano situazione dove il carnefice si traveste da vittima allo scopo di criminalizzare gli avversari; così ad esempio le dittature si ergono spesso a protezione di ‘false vittime’, e si attribuisce la marca di terrorista o di criminale a coloro che lottano per la difesa della giustizia e della libertà. Non è questa la natura del ‘vittimismo patologico’ di cui stiamo parlando, in quanto chi ne è affetto, in modo cronico o transitorio, si sente veramente vittima, perciò considera non pretestuosa la sua condizione, e in tal senso può giungere a giustificare la sua difesa aggressiva verso i potenziali colpevoli. Tuttavia tende poi a comportarsi con dispotismo dittatoriale e criminalizzante, in quanto in nome della vittima con la quale si identifica, ritiene di essere autorizzato ad avere comportamenti negativi, fastidiosi, irritanti e manipolatori verso gli altri.
Il concetto di vittimismo patologico, definisce una situazione in cui il soggetto, è parte attiva nel creare una condizione di disagio e malessere psicofisico più o meno grave a sé stesso ed è solito poi lamentarsene con gli altri, con lo scopo di svalutarli facendoli sentire impotenti ed incapaci. In tal modo li punisce, e quindi, credendosi vittime si erge assai a carnefice psicologico, spesso, purtroppo di persone innocenti, che non c’entrano nulla, o che addirittura volvano essere di sostegno e di aiuto.

Il concetto di vittimismo patologico, definisce una situazione in cui il soggetto, è parte attiva nel creare una condizione di disagio e malessere psicofisico più o meno grave a sé stesso ed è solito poi lamentarsene con gli altri, con lo scopo di svalutarli facendoli sentire impotenti ed incapaci. In tal modo li punisce, e quindi, credendosi vittime si erge assai a carnefice psicologico, spesso, purtroppo di persone innocenti, che non c’entrano nulla, o che addirittura volvano essere di sostegno e di aiuto.
Il vittimismo deve essere considerato come una forma di auto distruttività e di auto sabotaggio, ma anche di aggressività ricattatoria e colpevolizzante verso gli altri.
Tutto ciò mette a grave rischio la possibilità di maturare la propria personale evoluzione di essere umano e di instaurare delle costruttive ed armoniose relazioni con gli altri, nella famiglia, nell’amicizia, nel campo sociale, del lavoro e nella vita amorosa.
Riassumendo, alcuni punti, notiamo che alcune caratteristiche comuni di base del vittimismo, sono le seguenti: 1) negazione della responsabilità personale; 2) accuse, diffidenza, svalutazione e invidia verso gli altri; 3) focalizzazione in modo rigido sul proprio stare male 4) Dinamiche evasive di manipolazione e sabotaggio della relazione di sostegno e cura.
Dobbiamo sempre aver presente, a livello di consapevolezza umana e terapeutica, che il vittimista, è stato comunque realmente una vittima di processi inconsci infantili, dei quali la madre o le figure di attaccamento primario possono essere più o meno inconsciamente responsabili. Il vittimista non è una persona che finge di soffrire, ma è una persona che soffre moltissimo e che per evitare che questa sofferenza lo conduca alla depressione o alla follia, adotta la disturbata e disturbante strategia psicopatologica del vittimismo.

Riassumendo, alcuni punti, notiamo che alcune caratteristiche comuni di base del vittimismo, sono le seguenti: 1) negazione della responsabilità personale; 2) accuse, diffidenza, svalutazione e invidia verso gli altri; 3) focalizzazione in modo rigido sul proprio stare male 4) Dinamiche evasive di manipolazione e sabotaggio della relazione di sostegno e cura.
Dobbiamo sempre aver presente, a livello di consapevolezza umana e terapeutica, che il vittimista, è stato comunque realmente una vittima di processi inconsci infantili, dei quali la madre o le figure di attaccamento primario possono essere più o meno inconsciamente responsabili. Il vittimista non è una persona che finge di soffrire, ma è una persona che soffre moltissimo e che per evitare che questa sofferenza lo conduca alla depressione o alla follia, adotta la disturbata e disturbante strategia psicopatologica del vittimismo.

“Il capo della Sinagoga allora, non volendo attaccare direttamente Gesù, ma sdegnato dalla guarigione che egli aveva compiuto nel giorno di sabato, tradizionalmente dedicato al riposo per il popolo ebraico, cercò di sollevargli contro la gente, affermando: “Ci sono sei giorni in cui si i deve lavorare; in quelli, dunque, dovete venire a farvi curare e non nel giorno di sabato “. Il Signore, replicò.”Ipocriti, non sciogliete forse, di sabato, ciascun il vostro bue o l’asino dalla mangiatoia per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo (cioè, di Dio), che satana ha tenuta legata diciotto anni, non doveva liberarsi da questo legame in giorno di sabato?”. Mentre diceva queste cose i suoi avversar si vergognavano mentre le folle, esultavano per tutte le meraviglie da lui compiute. (Vangelo di Luca, 13, 10-17)
(Per il momento, per quanto importante per comprendere il concetto di guarigione fatta di sabato per scindere quel legame dal male e quello di ipocrisia, tralascio l’ analisi di questa seconda parte dell’episodio descritto da Luca.)
La descrizione fatta da Luca di tutto questo episodio, è molto vivida e di grande portata simbolica. Infatti la donna, priva di diritti da una parte e che a causa della sua afflizione ossea dall’altra, era costretta a tenere la faccia sempre rivolta a terra, è simbolo non solo degli ultimi, dei poveri e degli afflitti che camminano a testa bassa sulla terra, che non osando più guardare il cielo perché piegati dal rimorso dei loro peccati o perché chiusi nei loro egoismi e ricordiamo che il vittimismo è anche una forma celata di egoismo verso gli altri e verso la gratuità della vita che ci è stata donata; quella donna, è anche simbolo, a livello religioso, di un legame satanico ( E a livello psicologico, di un “male” che ci affligge). Infatti, in questo singolo ma ben concatenato episodio narrato solo da Luca e con molta efficacia, la donna curva in sé, rappresenta una donna piegata e schiacciata dai pesi della vita e dalla sua condizione di schiavitù fisica e morale, ma anche, rappresenta un legame satanico, dal quale Gesù la libera. Un legame quindi, con il male, ovvero con l’assunzione in sé di atteggiamenti negativi ed autodistruttivi, che la facevano sentire da tanto tempo completamente piegata o “incurvata”, dalla e verso la vita ( Luca infatti, che era un evangelista medico, afferma, in proposito e sembrerebbe volontariamente, per rafforzare l’enfasi del miracolo della guarigione e del cambiamento della sua postura , dapprima: “Non poteva alzarsi in nessun modo da 18 anni” e, dopo l’intervento di Gesù: “Subito si alzò” ).
Un male che come abbiamo detto, in lei si manifestava con i sintomi di una malattia ossea, impedendole di assumere la posizione eretta e di alzare lo sguardo verso l’alto. E la posizione ortostatica, cioè eretta era considerata allora una posizione che distingueva l’essere umano dagli animali, così come il cielo, oltre al suo valore spirituale, era simbolo della ragione e del discernimento. Il cielo, rappresenta infatti la “luce” della mente, contrapposta all’ombra ed all’oscurità, al rapporto primitivo ed esclusivo con la terra. Era come se quella donna, fosse costretta a controllare ed a misurare ogni suo passo.
(Per il momento, per quanto importante per comprendere il concetto di guarigione fatta di sabato per scindere quel legame dal male e quello di ipocrisia, tralascio l’ analisi di questa seconda parte dell’episodio descritto da Luca.)

Un male che come abbiamo detto, in lei si manifestava con i sintomi di una malattia ossea, impedendole di assumere la posizione eretta e di alzare lo sguardo verso l’alto. E la posizione ortostatica, cioè eretta era considerata allora una posizione che distingueva l’essere umano dagli animali, così come il cielo, oltre al suo valore spirituale, era simbolo della ragione e del discernimento. Il cielo, rappresenta infatti la “luce” della mente, contrapposta all’ombra ed all’oscurità, al rapporto primitivo ed esclusivo con la terra. Era come se quella donna, fosse costretta a controllare ed a misurare ogni suo passo.

Questo passo del Vangelo, che ci parla attraverso l’episodio di questa donna “incurvata”, di un’umanità incurvata dal suo legame con satana, cioè, schiava e schiacciata dal peso del male ed incapace di discernere. In altri termini si tratta del peso del rimosso o del rimorso, aspetti archetipici presenti in ognuno di noi, quelli propri dell’Ombra, nei quali covano le nostre rabbie ed i nostri desideri di rivalsa, così come le parti più distruttive da cui ognuno di noi, può essere come posseduto in certe occasioni, fino a condizionare negativamente la coscienza e quindi a renderci agenti del male verso gli altri e verso se stessi.

INTRODUZIONE
Le persone che si comportano in modo vittimistico vivono in una persistente e involontaria sfiducia verso gli altri e verso le possibilità positive della vita, attraverso l’irrigidirsi di meccanismi difensivi disfunzionali. Queste persone possono essere aiutate a migliorare la propria condizione generale di vita e la propria autostima quando si comprendo le ragioni psicologiche profonde del loro disagio interiore che le induce ad accusare gli altri e a non vedere mai le proprie responsabilità. Il recupero dell’autostima è fondamentale per uscire dal vittimismo patologico, ma a tal fine bisognerebbe essere capaci di un minimo di autocritica, cosa che purtroppo non c’è, o al massimo è simulata. Per diverse ragioni il comportamento vittimistico può essere considerato come una particolare forma di ‘narcisismo patologico’ che amplifica l’immagine dell’ego attraverso l’acquisizione di un potere sugli altri basato sulla colpevolizzazione, il ricatto affettivo, l’esaltazione del proprio Io attraverso la sofferenza effettiva, ma anche ingigatita, iperesibita e talvolta simulata.

Mirò… una gabbia intorno a un cuore vittimista

Tutti noi possiamo subire dei torti, piccoli o grandi, o vere e proprie ingiustizie il che provoca certamente dispiacere, ma non necessariamente il sentirsi ‘sempre vittima di tutto e di tutti’. Il vittimista è convinto di subire torti sempre e da chiunque: nell’ambito famigliare e lavorativo, nella coppia, nell’amicizia.
Generalmente, seppure con grande spirito di sopportazione, possiamo affrontare certe offese con l’aiuto della razionalità, ed anche rivolgendoci ad altri per avere sostegno. Possiamo sopportare soprusi e vessazioni da coloro verso i quali pensavamo di poterci fidare anche volgendo altrove la nostra attenzione creativa e ricettiva, costruendo per noi stessi nuovi impegni, situazioni e relazioni volte a fare del nostro meglio. Inoltre possiamo cercare una riconciliazione con chi ci ha offeso e ferito. Talvolta possiamo anche riconoscere che un torto subito deriva da incomprensioni reciproche; con ciò individuiamo una nostra quota di responsabilità. In ogni caso, seppure entriamo in crisi e ci addoloriamo, è naturale il desiderio e l’impegno per uscire dalla situazione critica, dalla quale ci si vuole liberare.
La persona vittimista invece, di fronte alle difficoltà e alle ingiustizie della vita, quelle piccole come quelle grandi, tende a reagire senza volersi veramente liberare della sofferenza, al fine di trarre da essa una forma patologica di difesa psicologica. Essenzialmente si tratta di una difesa non tanto verso gli altri, quanto verso fattori psichici suoi interni: inconsci disturbanti e risalenti alla prima infanzia. Quindi, in un certo senso, la persona vittimista, piuttosto che voler superare la sofferenza tende a crogiolarsi in essa, a trarne un qualche assurdo vantaggio difensivo/aggressivo.

La persona vittimista non è in grado di riconoscere le proprie responsabilità, e se si cerca di fargliele notare si sente aggredita.
La difesa vittimistica è dunque una difesa dai propri fantasmi persecutori interiori, formatisi nell’inconscio a causa di una relazione disturbata con la madre, e poi con l’ambiente famigliare.

IL PROBLEMA PIU’ TRISTE E DISTURBANTE DEL VITTIMISMO PATOLOGICO, DI CARATTERE CRONICO O TRANSITORIO, E’ CHE SI VEDE SOLO IL MALE E LA DIFFICOLTA’ IN OGNI SITUAZIONE DELLA VITA, COSI’ SI DIVENTA NEGATIVI E SI TENDE A TRASMETTERE AGLI ALTRI TALE NEGATIVITA’ E DI CONSEGUENZA A RICEVERLA INDIETRO. E’ FONDAMENTALE SPEZZARE QUESTO CIRCOLO VIZIOSO, PRENDENDO COSCIENZA DELLA PROPRIA CONDIZIONE INTERIORE OSCURATA DA UN MALESSERE RIMOSSO E INCONSAPEVOLE, AL FINE DI TORNARE AD ESSERE CAPACI DI VEDERE CHE ESISTE SEMPRE ANCHE IL BENE, QUINDI DI POTERLO TRASMETTTERE ED AVERE IL CORAGGIO E LA GIOIA DI VIVERE NELL’ENERGIA DEL BENE, QUALUNQUE COSA ACCADA.

Il sentimento del vittimismo patologico ha una sua corrispondenza con la figura del ‘martire’, solo che il martirio non viene volta ad una qualche nobile causa, seppure con esaltazione e maniacalità, quanto ad esercitare un proprio potere negativo e punitivo verso gli altri, ritenuti in qualche modo responsabili del proprio malessere, per inettitudine ed anche per vera e proprio malignità. La persona vittimista la causa prima del suo malessere sia in essa stessa, ciò corrisponderebbe alla pazzia, ad una mostruosità persecutoria interna dalla quale non saprebbe come liberarsi. Perciò, la persona vittimista, tende a considerarsi sempre oppressa da qualcosa di insopportabile, si sente ostacolata dagli altri e dalle circostanze e di ciò si lamenta continuamente, ma in tal modo si sente rassicurata dall’idea che le forze ‘cattive’ sono al di fuori di se stessa. In prima istanza la lamentela reiterata serve per ottenere attenzioni dagli altri, ma poi questi stessi altri vengono svalutati perché incapaci di consolare. Spesso gli ‘altri’, dopo aver invano sopportato le lamentele del vittimista patologico, riscontrano di non essere di non poter essere di alcuno aiuto, se non come deposito di tali lamentele delle quali devono condividere passivamente il dolore.




Un ‘disturbo psicosomatico’ riconducibile al vittimismo patologico è la cosiddetta ‘scoliosi isterica’ In buona sostanza a causa di tensioni muscolari di natura psicogena vi possono essere distorsioni della spina dorsale che con il tempo, se non curate, tendono a diventare sempre più evidenti. Può però accadere che il vittimisma patologico consideri, più o meno inconsciamente che, favorire una postura nella quale risulta evidente la sua sofferenza, come quella di camminare a capo chino o, come si dice ‘piegato in due’, metta in evidenza costantemente la sua condizione di vittima, traendone i paradossali vantaggi difensivi e quindi psicopatologici dei quali abbiamo parlato. Perciò a lungo andare il disturbo della spina dorsale che tende a piegarsi in avanti diventa sempre più accentuato e si aggrava effettivamente in modo pietoso, dal momento che non solo non è stato contrastato attraverso terapie specifiche alle quali il vittimista con varie scuse si è sempre sottratto, ma anche perché la posizione scorretta è stata accentuata fino a farla diventare una abitudine, considerata come la forma più plateale per ostentare il proprio vittimismo patologico.
E’ alquanto toccante riflettere su un caso di ‘scoliosi vittimistica’ riportato nel Vangelo di Luca, il quale nel narra l’episodio della “Guarigione della donna curva” (Verso 13, 10-17). Avendo presente che ai tempi di Gesù, le donne non avevano diritti, esse erano molto adatte a rappresentare simbolicamente, tutti coloro che erano considerati, per qualche motivo, “gi ultimi”, chiunque vivesse in una condizione di schiavitù non solo fisica ma anche morale. La donna poi, da sempre, viene considerata ricettiva e nelle tradizioni antiche, ciò significava che essa lo era, per sua natura, anche nei confronti del male. Inoltre, dobbiamo considerare che all’epoca, anche gli infermi, erano mal visti, perché essendo sconosciuta l’origine della maggior parte delle malattie, ritenuti come segnati dal demonio. Per questo motivo, né le donne né gli infermi né i deformi, potevano entrare nelle Sinagoghe. Luca narra che un sabato durante il suo viaggio, Gesù stava predicando in una Sinagoga e qui, avvenne un fatto insolito. Infatti, una donna che Luca descrive come “curva in sé” e che “non poteva alzarsi in nessun modo”, da 18 anni, stava ad ascoltarlo. Gesù la vide e la chiamò a sé , quindi le disse : “ Donna, alzati, sei libera dalla tua infermità” e le impose le mani. “Subito quella si alzò” e glorificò Dio.( Luca 13, 10/13)


da Il vittimismo patologico: una riflessione per guarire per i familiari, per i terapeuti e per tutti coloro che vogliono aiutare le "vittime di sé stessi" di Pier Pietro Brunelli e Elisabetta Lazzar.
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